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[CURIOSITA’] Forse non tutti sanno che…..

Forum NORME E LEGGI SULLA PESCA NOTIZIE E SEGNALAZIONI DEGLI UTENTI [CURIOSITA’] Forse non tutti sanno che…..

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  • [size=13pt]……L'antenato del piranha era più feroce del T. Rex[/size]

    Nelle acque della preistoria non mancavano certo predatori temibili. Il Megalodonte ad esempio, uno squalo bianco di 45 tonnellate che si nutriva di balene, o il Dunkleosteus, un pesce primitivo lungo quasi 10 metri, con un terribile muso corazzato. Ma il più pericoloso, almeno per la potenza del suo morso, era un antenato dei moderni piranha: il Megapiranha paranensis. A scoprirlo è stato un gruppo di ricercatori dell'Università di Washington, che ha calcolato la potenza del morso di questo pesce preistorico utilizzando come modello il suo parente più prossimo, il piranha nero del Rio delle Amazzoni. I risultati dello studio, pubblicati su Scientific Reports, parlano di una forza che va dai 1.240 ai i 4.750 newton, il che renderebbe quello del megapiranha, in proporzione al suo peso corporeo, il morso più potente del regno animale.

    Del Megapiranha paranensis, vissuto nel tardo Miocene (circa 8-10 milioni di anni fa), si conosce un unico fossile, scoperto in Argentina nel 2009. Dai resti ritrovati, un pezzo di muso e dei denti, è stato stimato che il megapiranha misurasse circa un metro di lunghezza, 4 volte più dei più grandi piranha odierni, e che era munito di grossi denti aguzzi posti “a zig zag” sulla mandibola, in una configurazione che è una via di mezzo tra quella dei suoi discendenti carnivori e onnivori.

    Per calcolare la forza del morso del megapiranha, i ricercatori hanno utilizzato come modello il Serrasalmus rhombeus, o piranha nero, il più grande membro vivente di questa famiglia di pesci. I ricercatori hanno catturato 15 esemplari lungo il Rio delle Amazzoni a cui hanno fatto mordere delle placche di metallo studiate per misurare la forza impressa dalla loro dentatura. “I piranha sono pesci piccoli ma molto scontrosi, e mordono sempre con tutta la loro forza”, spiega Stephanie Crofts, uno degli autori dello studio. I risultati hanno mostrato una forza che variava dai 67 newton in un esemplare di 0,17 kg ai 320 newton di uno da 1,1 kg, in media, una forza che è circa 30 volte il loro peso corporeo.

    Con questi dati, i ricercatori hanno calcolato la potenza del megapiranha: pesando in media circa 10 kg, il suo morso imprimeva una pressione che poteva andare dai 1.240 ai 4.750 newton. Cifre che, in proporzione alla taglia, lo rendono il più potente morso del regno animale. Per fare un esempio, un megapiranha poteva mordere con una forza pari a quella sviluppata da uno squalo bianco di 400 chili. Persino un tirannosauro, con la sua gigantesca mandibola, non era in grado di sviluppare una forza paragonabile in proporzione al suo peso.

    Studiando i denti fossili di megapiranha, Crofts ha cercato di ricostruire che uso facesse questo antico pesce di un morso così potente. “Abbiamo scoperto che i denti del megapiranha avevano la stessa resistenza di quelli dei piranha attuali, ma la distribuzione della sollecitazione nei denti era simile a quella che si trova in pesci che si nutrono di prede molto dure”, spiega Crofts. A differenza dei piranha attuali, che si nutrono prevalentemente delle parti molli delle loro prede, i ricercatori ritengono quindi che il megapiranha fosse probabilmente in grado di attaccare animali corazzati, come tartarughe o pesci ossei, e creature di grandi dimensioni, molto comuni tra la megafauna del miocene.

    Riferimenti : Scientific Reports
    FONTE: Galileo.it

    [size=13pt]….Il piu' grande squalo del pianeta:[/size]

    E' lo squalo balena Rhincodon typus che e' anche il piu' grosso fra i pesci. Si nutre di plancton e arriva a 18 metri di lunghezza, superando le 30 tonnellate di peso.

    Il piu' piccolo.
    E' lo squalo pigmeo spinoso Squaliolus laticaudus, che raggiunge a malapena i 25 centimetri. Lo si vede raramente, perche' di giorno vive sul fondo, anche a 200 metri di profondita', e risale alla superficie alla ricerca di cibo soltanto di notte.

    Il piu' grande mangiatore di uomini.
    E' difficile a dirsi, a causa della pessima reputazione di cui godono gli squali. I sospetti si concentrano pero' sul grande squalo bianco Carcharodon carcharias (il cui record di lunghezza appartiene a una femmina con 7,14 metri), seguito immediatamente dallo squalo tigre.

    Il piu' comune.
    E' certamente lo Squalus acanthias, o spinarolo, che e' diffuso nelle acque di tutto il mondo, dalle coste della Scandinavia al Cile meridionale. La sua lunghezza massima supera di poco il metro e mezzo.

    Il piu' raro.
    E' il Megachasma pelagios, o squalo dalla bocca grande, di cui sono stati trovati soltanto pochi esemplari. Vive nelle profondita' oceaniche.

    Il piu' strano.
    E' il Mitsukurina owstoni o squalo Goblin, che si credeva estinto da 100 milioni di anni, fino al suo ritrovamento al largo del Giappone nel 1898. Ha un muso bizzarro, con una prominenza allungata e piatta come una spatola sopra le mascelle protrattili. E' probabilmente anche lo squalo piu' brutto fra quelli attuali.

    Il piu' veloce.
    Secondo alcuni ricercatori e' il mako, Isurus oxyrinchus con 32 chilometri orari; secondo altri, invece, e' lo squalo blu o verdesca Prionace glauca di cui affermano di avere misurato una velocita' di quasi 39 chilometri orari.

    Il miglior viaggiatore.
    Il primato tocca sicuramente alla verdesca, Prionace glauca che percorre comunemente dai 2.000 ai 3.000 chilometri nelle sue migrazioni, con un record di quasi 6.000 chilometri dallo Stato di New York fino al Brasile. Sono capaci di percorrere piu' di 2.000 chilometri anche il mako, lo squalo tigre e lo squalo plumbeo.

    Il piu' longevo.
    E' forse lo squalo bianco Carcharodon carcharias, che alcuni scienziato sostengono possa arrivare fino a 100 anni. Seguono il Galeorhinus galeus, o squalo tope, e lo spinarolo Squalus acanthias con 40 anni.

    FONTE: squali.com

    [size=12pt]…..lo Squalo Chitarra[/size]

    Non e' realmente uno squalo, ma fa parte della vicina famiglia delle razze. Tende a muoversi nell'acqua come uno squalo, col tipico movimento oscillante, ma agisce come una razza quando si trova sul fondo. Questa creatura non e' pericolosa ma puo' diventare grossa e spesso si interessa ai subacquei avvicinandosi in maniera decisa. E' anche chiamata "Pesce chitarra dalle pinne a squalo" , "Razza dal naso a paletta" , "Squalo dal naso a paletta" , "Pesce chitarra" , etc. Puo' raggiungere i 3 m di lunghezza. Gli adulti grandi hanno una colorazione vicino al nero, ma gli esemplari giovani sono molto piu' chiari e spesso hanno macchie biancastre. Preferiscono le acque piu' calde e si possono trovare da Coffs Harbour fino a tutto il Nord Australia, fino a Fremantle (Australia occidentale).

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    Se ne sono incontrati un diverso numero nei pressi di Cook Island nel Febbraio 1997. Probabilmente di trattava della specie gigante Rhinobatos Typus. E' interessante notare che molte di loro erano si accompagnavano con squali zebra Stegostoma fasciatum (foto in basso).

    squalozebra-vi.jpg

    Forse esiste una forma di relazione tra le due specie che ancora non abbiamo compreso. Lo squalo zebra arriva per alimentarsi ogni anno, dalla fine di Dicembre ai primi di marzo.

    FONTE: squali.com

    [size=12pt]….Il primo mostro marino d'acqua dolce è stato scoperto in Ungheria[/size]

    La creatura appena scoperta apparteneva a una famiglia di antichi rettili acquatici conosciuti come mosasauri, una sorta di incrocio tra un coccodrillo e una balena. Ai mosasauri mancavano però i colli lunghissimi dei plesiosauri. Soprannominato Pannoniasaurus, questo mosasauro sembra sia stato il primo a trascorrere tutta la sua vita in acqua dolce.

    "Le prove che esponiamo nel nostro studio dimostrano che, in maniera simile ad alcuni gruppi di balene, i mosasauri si adattarono rapidamente a un’ampia varietà di ambienti acquatici", ha spiegato il primo autore dello studio László Makadi, paleontologo del Museo ungherese di Storia Naturale.

    Questo mosasauro è stato scoperto in una miniera abbandonata di carbone dell'Ungheria. I paleontologi hanno trovato migliaia di fossili appartenenti a diversi individui di Pannoniasaurus che vanno dal metro di lunghezza fino ai quattro metri. I pezzi più piccoli, che appartengono agli esemplari più giovani sono una rarità, spiega Michael Caldwell, uno degli autori dello studio e paleontologo presso l'Università dell'Alberta in Canada. “In genere troviamo resti di mosasuri adulti. Trovare i resti di esemplari così giovani è un evento rarissimo, come trovare un dente di gallina”.

    Inoltre, la scoperta di così tanti esemplari di Pannoniasaurus nello stesso sito indica che questa fosse una specie d’acqua dolce vera e propria, e non una specie marina che si avventurava sporadicamente nei fiumi, come fanno a volte gli squali. “La cosa più interessante è che abbiamo trovato l’ambiente in cui vivevano in tutte le fasi del loro ciclo di vita”, ha detto Caldwell.

    Durante il Cretaceo superiore il sito in cui viveva Pannoniasaurus faceva parte di un arcipelago di isole tropicali situato nel mezzo di un enorme bacino d’acqua dolce che separava l'Africa dal sud dell'Europa. Pannoniasaurus viveva nei fiumi d'acqua dolce che attraversano queste isole e che poi sfociavano nel bacino. I fiumi erano popolati di pesci, anfibi, tartarughe, lucertole, coccodrilli e altri dinosauri, come testimoniano i resti fossili trovati nello stesso sito. E forse, viste le sue misure,  Pannoniasaurus poteva essere tra “ i grandi predatori dell'ecosistema", ha spiegato Caldwell.

    Di certo, fra tutti i predatori alfa Pannoniasaurus era piuttosto "innocuo", visto che con iI suoi piccoli denti aguzzi probabilmente mangiava solo piccole prede come pesci, anfibi e lucertole. “Dubito che fosse un predatore gigante”, ha detto Caldwell. “Si accontentava di catturare qualche pesce”.

    A differenza di altri mosasauri marini che nuotavano grazie a grandi pinne, gli arti di Pannoniasaurus assomigliavano a delle zampe che, di tanto in tanto, potevano essere utili per arrampicarsi sulla terra. “Potrebbe benissimo essere stato un anfibio”, dice Caldwell. “Ho il sospetto che questi mosasauri si comportassero un po’ come gli attuali coccodrilli, che passano un sacco di tempo in acqua, ma non si fanno neanche problemi a vagare di fiume in fiume nei periodi più secchi o bearsi nelle acque più basse per regolare la loro temperatura corporea”.

    Il paleontologo Randall Nydam, della Arizona Midwestern University, ha definito la scoperta del mosasauro d’acqua dolce “molto importante”: “Non credevo che avremmo mai trovato un mosasauro d'acqua dolce perché sembrava un animale marino così specifico”, dice Nydam. Infatti, quando è stata annunciata la scoperta dei fossili ungheresi, racconta Nydam, molti paleontologi hanno pensato che appartenessero a delle lucertole di terra di grandi dimensioni, tipo drago di Komodo, fino a che la loro origine acquatica non si è stata così evidente.

    “È davvero una scoperta eccezionale”, commenta Nydam.

    Esistevano altri rettili d'acqua dolce?

    Secondo Caldwel, è improbabile che i mosasauri fossero gli unici rettili d’acqua dolce. “Sono convinto che ci fossero plesiosauri e anche ittiosauri – grandi rettili marini simili ai delfini – d'acqua dolce, ma purtroppo non ne abbiamo ancora la prova”.

    Lo studio su Pannoniasaurus è stato pubblicato online sulla rivista PLoS ONE

    FONTE: nationalgeographic.it

    [size=12pt]….Malattie pericolose si celano negli acquari di pesci tropicali [/size]

    I pesci tropicali considerati da sempre bellissimi sono vettori di insidie inimmaginabili per la nostra salute, soprattutto per i soggetti più deboli.

    Nei nostri acquari, secondo un recente studio della Oregon State University, in cui fanno bella mostra dei magnifici pesci tropicali, si celano pericolosissime malattie killer derivanti da alcune specie importate.

    Chi ha un acquario in casa con pesci tropicali è ad alto rischio di infezioni batteriche e malattie persino mortali, perché da quanto si è appreso molti tipi di batteri e virus presenti nei pesci stessi sono sorprendentemente resistenti agli antibiotici.
    Venendo al nocciolo della questione i pesci importati da luoghi esotici si portano appresso anche infezioni batteriche che non possono essere trattate e di conseguenza possono diffondersi tra gli esseri umani.

    Tra le infezioni batteriche a cui si può andare incontro c’è l’otite, la polmonite, la congiuntivite dovute allo Pseudomonas, mentre lo Staphylococcus è responsabile di infezioni quali foruncoli, follicoliti, impetigine, e altre patologie causate da tossine che provocano sindrome da cute ustionata, sindrome da shock tossico e in alcuni casi anche setticemie estremamente gravi.

    Anche se lo studio sostiene che il passaggio di malattie tra i pesci e gli esseri umani è raro, le persone che possiedono o lavorano a contatto di pesci tropicali e quelli che hanno uno scarso sistema immunitario sono i soggetti più a rischio. Ragion per cui si raccomanda la massima attenzione nell’acquisto di pesci tropicali ed evitare la pulizia degli acquari con tagli aperti o piaghe sulla pelle.

    Si raccomanda di essere molto oculati nell’acquisto di determinate specie di pesci e di separare i nuovi acquisti per almeno 30 giorni, da quelli che si hanno già a casa. Un pesce che risulta ammalato dev’essere immediatamente rimosso dall’acquario e non si devono utilizzare antibiotici se non sotto prescrizione veterinaria.

    Fonte: tuttasalute.net

    [size=12pt]La Rana Pescatrice ….utilizza un richiamo naturale per catturare la sua preda [/size]

    Questo pesce d'alto mare dall'aspetto minaccioso ha tutte le ragioni per essere arrabbiato. È forse l'animale più brutto sul pianeta, e popola un habitat che facilmente potrebbe essere definito il più inospitale della terra: il solitario e buio fondale marino.

    Esistono oltre 200 specie di rana pescatrice, la maggior parte delle quali vivono nell'oscura profondità dell'oceano Atlantico e dell'Antartico, fino a circa un chilometro e mezzo al di sotto della superficie, sebbene alcuni popolino acque più basse e tropicali. Alcuni esemplari possono essere piuttosto grandi e raggiungere 1 metro di lunghezza. Tuttavia, la lunghezza media è sensibilmente inferiore, di norma non supera i 30 centimetri.

    La loro caratteristica più distintiva, che si presenta solo nelle femmine, è rappresentata da un pezzo di pinna dorsale che sporge infuori sopra la bocca come una canna da pesca; da qui il loro nome. La punta è dotata di una piccola escrescenza carnosa e luminosa che funge da esca e con la quale tormenta la preda fino a che questa non abbocca. La sua bocca è talmente grande e il suo corpo così flessibile, che di fatto riesce ad ingoiare una preda fino a due volte più grande di lei.

    Il maschio, che è nettamente più piccolo della femmina, non ha bisogno di una soluzione di questo genere. In un ambiente – quello degli abissi marini – in cui sarebbe estremamente difficile trovare un partner sessuale, il maschio si è evoluto in un compagno sessualmente parassitario. Quando un giovane maschio incontra la femmina, la afferra con i suoi denti forti. Nel corso del tempo, si attacca permanentemente al corpo della femmina, collegandosi alla sua pelle e al suo circolo sanguigno e rinunciando ai propri occhi e tutti i suoi organi interni tranne i testicoli. La femmina può portare sei o più maschi sul suo corpo.

    FONTE: nationalgeographic.it

    [size=12pt]……L'Orca è uno dei predatori più potenti ed intelligenti del mondo[/size]

    L'orca, Orcinus orca, è il più grande dei Delfinidi e uno dei più potenti predatori al mondo. Si nutre di mammiferi marini come foche, leoni marini e persino balene usando denti lunghi fino a dieci centimetri. E' noto che l'orca cattura le foche facendole cadere dai banchi di ghiaccio. L'animale si nutre anche di pesci, calamari e uccelli marini. Pur frequentando spesso acque fredde e costiere, le orche hanno un habitat che va dalle regioni polari all'Equatore.

    Cacciano in micidiali pod (gruppi familiari che contano fino a 40 individui), le cui popolazioni possono essere sia "residenti" che "transienti". Ciascun gruppo preda animali diversi e usa tattiche differenti per catturarli. I pod "residenti" tendono a preferire i pesci, mentre quelli "transienti" prendono a bersaglio mammiferi marini. Tutti usano tecniche di caccia efficaci e basate sulla collaborazione, che sono state ricollegate al comportamento dei branchi di lupi.

    Le orche emettono una grande varietà di suoni per comunicare, e ogni pod produce particolari rumori che i rispettivi membri riconoscono anche in lontananza. Questi animali usano l'ecolocalizzazione per comunicare e cacciare, emettendo suoni che viaggiano sott'acqua finché non incontrano altri oggetti, a questo punto rimbalzano e tornano indietro, rivelandone posizione, dimensioni e forma. Le orche hanno un atteggiamento protettivo nei confronti dei loro piccoli, e la madre è spesso assistita da altre femmine adolescenti nella cura degli stessi. Le femmine partoriscono ogni tre-dieci anni, dopo una gravidanza di 17 mesi. L'orca è immediatamente riconoscibile dal caratteristico colore bianco e nero e, essendo un animale intelligente e addestrabile, è la protagonista di molti spettacoli negli acquari. Non è mai stata oggetto di caccia intensiva da parte dell'uomo.

    Classe: mammiferi

    Dieta: carnivora

    Durata media della vita in libertà: 50-80 anni

    Dimensioni: 7-10 m

    Peso: più di 6 tonnallate

    FONTE: nationalgeographic.it

    [size=12pt]….Gli esseri umani vivevano nelle isole del Mediterraneo già 170 mila anni fa[/size]

    Sino a oggi, infatti, gli archeologi erano certi che i primi insediamenti umani a largo del Mediterraneo risalissero al Neolitico, all’incirca 10 mila anni fa. Ma i ritrovamenti e le analisi di artefatti e resti fossili di animali in isole come Creta e Cipro testimoniano invece una presenza umana molto più antica. Una dimostrazione, come scrive in un articolo su Science Alan Simmons dell’Università del Nevada, in Usa, di come i primi ominidi fossero già dei navigatori molto abili.

    Sino a vent’anni fa, tutti gli scavi archeologici condotti nelle isole di Cipro e Creta avevano portato alla luce ritrovamenti che documentavano la presenza di insediamenti umani risalenti a 9 mila anni fa, nel Neolitico. Si trattava probabilmente di popolazioni di agricoltori che si erano portati dietro qualche animale domestico pur non avendo veri e propri allevamenti. Da allora, però, una serie di eccezionali scoperte ha rivoluzionato il quadro dell’occupazione insulare nel Mediterraneo, tanto che oggi si pensa che a raggiungere le coste di isole come Cipro e Creta furono persino i Neanderthal e gli Homo erectus.

    D’altra parte, una delle obiezioni all’ipotesi di una colonizzazione così antica, ovvero che i primi ominidi non potevano avere abilità di navigazione che gli permettessero di sostenere lunghi viaggi per mare, non regge. Già 50 mila anni fa, infatti, gli uomini del pre-Neolitico riuscirono a raggiungere l’Australia. E cosa dire dei ritrovamenti sull’Isola di Flores, in Indonesia, datati oltre un milione di anni fa? Se fossero autentici, così come sembra, vorrebbe dire che l’Homo erectus, comparso all’incirca 1,8 milioni di anni fa, possedeva già le abilità cognitive necessarie ad affrontare lunghi e difficili viaggi per mare.

    Ma veniamo alle prove concrete. Sull’isola di Creta, scavi hanno restituito artefatti come amigdale di quarzo (pietre a forma di mandorla lavorate per essere taglienti), accette e picconi triedrici che, in base alla tipologia e alla natura del deposito geologico in cui sono stati ritrovati, sembrano risalire a quasi 170 mila anni fa, al Paleolitico inferiore. E qui entrano in gioco i Neanderthal, vissuti all’incirca tra i 200 e i 30 mila anni fa, e forse persino gli Homo erectus, anche se la loro scomparsa è avvenuta prima. Anche i ritrovamenti sull’isola di Cipro, benché non così antichi, testimoniano comunque un’occupazione leggermente precedente al Neolitico, risalente a circa 12 mila anni fa. Serviranno nuove ricerche e accurate analisi per confermare questo scenario, ma la domanda che incuriosisce i ricercatori è un’altra: perché i primi ominidi hanno abbandonato la terraferma sfidando le incognite e i pericoli del mare?

    Riferimenti: Science Doi: 10.1126/science.1228880

    FONTE: Galileo.net
    AUTORE: MARTINA SAPORITI

    …Sono poche le specie ittiche in cui gli individui rimangono in una stessa area per tutto il corso della loro vita (specie sedentarie). La maggior parte delle specie effettua movimenti su scala diversa nel corso del ciclo vitale. Questi possono essere piccoli spostamenti locali e legati ad attività che contribuiscono alla crescita, sopravvivenza e riproduzione, oppure possono essere vaste migrazioni oceaniche o tra ambienti differenti.

    Con il termine migrazione si intende ogni movimento direzionale di massa da un’area a un’altra, che abbia caratteristiche di regolarità nel tempo o in relazione con la fase biologica. La maggior parte delle specie ittiche compie migrazioni in relazione al ciclo riproduttivo (migrazioni genetiche), all’accrescimento e in alcuni casi all’alimentazione (migrazioni trofiche). Queste migrazioni sono stagionali e legate al tipo di strategia riproduttiva che prevede la produzione di uova pelagiche.

    Affinché le larve e successivamente i giovanili abbiano possibilità di incontrare risorse sufficienti per sopravvivere è necessario che le aree in cui avviene il loro accrescimento abbiano caratteristiche idonee. La dispersione delle larve è quindi un momento cruciale nell’ambito del ciclo vitale di una specie e non avviene in maniera casuale. Ogni popolazione si riproduce in aree ben delimitate in relazione alla distribuzione delle correnti locali, in modo da assicurare che le larve vengano trasportate in una direzione ben determinata verso le aree marine in cui si concentreranno i giovanili (aree di nursery).

    Queste sono aree che presentano condizioni ambientali idonee e risorse trofiche abbondanti che consentono ai giovanili di accrescersi velocemente. Questi ultimi, con l’aumentare delle dimensioni tendono ad abbandonare le aree di nursery per riunirsi progressivamente con la popolazione di origine, compiendo una migrazione controcorrente. La maggior parte delle specie ittiche demersali, distribuite nelle aree temperate, si contraddistinguono infatti per la presenza di aree di riproduzione e di nursery, queste ultime poste generalmente a minore profondità. Sono anche ben conosciute le migrazioni, spesso su larga scala, effettuate da alcune specie pelagiche di Teleostei, come il tonno (Thunnus thynnus).

    Alcune specie, dette diadrome, compiono migrazioni riproduttive dal mare alle acque interne o viceversa. Si riconoscono quindi 2 tipi di migrazioni:

    •migrazioni anadrome, se la specie migra dal mare verso le acque interne (es. salmoni, alosa);
    •migrazioni catadrome, se la specie migra dalle acque interne verso il mare (es. anguilla).

    Da: Biologia e Sistematica dei Pesci
    biologiamarina.eu

    [size=12pt]…Le Stelle Marine…[/size]

    …non hanno né cervello né sangue. Il loro sistema nervoso si estende attraverso le braccia e il loro "sangue" è, in realtà, l'acqua di mare filtrata.

    Negli ambienti anglofoni, gli scienziati marini si sono incaricati del gravoso compito di ribattezzare “stella marina” quella che in inglese veniva da sempre chiamata starfish, pesce stella. Il motivo? Semplice, la stella marina non è un pesce. È un echinoderma, della stessa famiglia dei ricci di mare e dei dollari di sabbia.

    Si contano circa 2,000 specie di stelle marine negli oceani di tutto il mondo, dagli habitat temperati fino ai fondali marini più freddi. La varietà a 5 braccia è senz’altro la più comune, ma esistono specie con 10, 20 e fino a 40 braccia. La pelle ha consistenza cartilaginea, percorsa da calcificazioni atte a proteggere la stella marina dalla maggior parte dei predatori, e molti esemplari hanno una livrea variopinta che usano per mimetizzarsi o per spaventare potenziali nemici.

    Animali squisitamente marini, non vivono mai nelle acque dolci e solo raramente in quelle salmastre. Oltre che per la forma distintiva che le caratterizza, le stelle marine sono famose per l’abilità nel rigenerare braccia mutilate e, in alcuni casi, corpi completi. Vi riescono grazie alla dislocazione dei loro organi vitali, disposti tutti – o quasi – per l’appunto lungo le braccia. Molte, per potersi rigenerare, devono conservare intatta la parte centrale del corpo, ma ve ne sono alcune in grado di riformare per intero il proprio corpo a partire da un’unica porzione di arto amputato.

    Molte stelle marine hanno anche l’interessante capacità di consumare il proprio pasto senza inglobare la preda al loro interno. Fornite di sottili pedicelli, che terminano con una sorta di ventosa, le stelle marine fanno leva sui gusci di vongole e ostriche fino ad aprirli. A questo punto il loro stomaco si rovescia fuori dalla bocca e striscia fino alla preda. Penetra nel guscio aperto, avviluppa la preda e la digerisce esternamente. A operazione completata, fa rientro nel corpo della stella marina.

    Classe: invertebrati

    Dieta: carnivora

    Durata media della vita in libertà: oltre 35 anni

    Dimensioni: 12-24 cm

    Peso: fino a 5 kg

    FONTE: nationalgeographic.it

    [size=12pt]….La pesca illegale non risparmia nemmeno le riserve marine delle Galàpagos[/size]

    Le popolazioni di squalo sono in forte declino ormai in tutto il mondo: il degrado degli habitat, la pesca incontrollata, il bracconaggio e, più in generale, le attività antropiche, sono i maggiori responsabili del decremento di elasmobranchi nelle acque dell’intero pianeta. La pesca illegale è ormai diffusa su scala globale, arrivando a intaccare persino quelle aree geografiche inserite nel Patrimonio Mondiale dell’UNESCO. Le isole Galàpagos, rese famose dagli studi di Charles Darwin, ne sono un’importante testimonianza.

    Gli squali hanno cicli vitali molto lenti e manifestano una bassa resilienza alle variazioni ambientali: questi fattori, abbinati alle incalzanti fonti di stress prodotte dall’uomo, stanno portando al collasso le popolazioni di questi predatori marini. La cruenta pratica del finning, che prevede la cattura e la rimozione delle pinne dorsali, pelviche e pettorali da questi animali, per soddisfare le richieste di “zuppa di squalo”, sta prendendo inoltre sempre più piede. La recente crescita economica della Cina, che risulta essere il maggior consumatore di questi prodotti, giustifica quanto detto.

    Uno studio pubblicato recentemente su Marine Policy da Carr A. e collaboratori, ha preso in considerazione il carico di squali pescati illegalmente all’interno della  riserva marina delle isole Galàpagos, ritrovato a bordo della nave Fer Mary I. La composizione delle specie di elasmobranchi pescati è risultata essere molto varia, annoverando: squali volpe (Alopias superciliosus), squali seta (Carcharhinus falciformis), verdesche (Prionace glauca), squali martello (Sphyrna zygaena), squali tigre (Galeocerdo cuvier), squali delle Galàpagos (Carcharhinus galapagensis) e squali mako (Isurus oxyrinchus).

    I ricercatori hanno stimato la biomassa degli squali trovati a bordo della Fer Mary I in oltre 22 tonnelate. Inoltre, la maggior parte degli esemplari catturati erano di sesso femminile e giovani. Questo sbilanciamento della sex-ratio negli esemplari pescati, e l’abbondante presenza di forme giovanili, potrebbe essere dovuto alle modalità di pesca e condurre gli animali in oggetto a serie problematiche riproduttive.

    Il caso Fer Mary I è un concreto esempio di come la pesca illegale e l’overfishing vengano espletati anche all’interno di aree marine protette (AMP); questo studio, in particolare, dimostra l’urgente necessità di migliorare la gestione delle AMP e di aumentare la conservazione della biodiversità marina, soprattutto nelle zone ricche di specie (Biodiversity Hotspots). È necessario prendere coscienza che dallo stato di salute dei nostri mari dipende il futuro dell’intero pianeta e che i principi di salvaguardia degli ecosistemi dovrebbero essere la principale eredità da tramandare ai nostri figli. Vivere con la consapevolezza di essere una specie inserita all’interno di complicate interazioni ecologiche deve essere lo scopo e il fine comune della nostra generazione e di quelle che verranno.

    AUTORE: Stefano Magni
    FONTE: pikaia.eu

    Riferimenti:
    Illegal shark fishing in the Galàpagos Marine Reserve. Carr, A.L., Stier, A.C., Fietz, K., Montero, I., Gallagher, A.J., Bruno, J.F., 2013.

    [size=13pt]……..È morto il coccodrillo più grande del mondo[/size]

    Il coccodrillo marino lungo 6,17 metri catturato nel settembre del 2011 nelle Filippine è morto in cattività.
    L'esemplare, appartenente alla specie Crocodylus porosus, lungo 6,17 metri, è morto di recente nel Bunawan Eco-Park and Research Centre di Bunawan, nelle Filippine, dove era ospitato dal giorno della cattura.
    Nel luglio 2012, il Guinness dei Primati aveva confermato il record rappresentato dall'eccezionale creatura, catturata viva nel settembre del 2011. Il record precedente apparteneva a un coccodrillo marino australiano lungo 5,48 metri.
    La causa della morte di Lolong è ancora sconosciuta, e si attendono i risultati dell'autopsia per saperne di più. La morte del gigantesco rettile rappresenta una grave perdita per la protezione dei coccodrilli nel paese, ha dichiarato Ramon Paje, ministro dell'Ambiente delle Filippine.

    Lolong infatti rappresentava un invito a "un maggior rispetto nei confronti di questi rettili", come ha scritto sul suo blog Adam Britton di Big Gecko, una società di ricerca e consulenza sui coccodrilli che ha base in Australia.
    Nel 2011 ad esempio il Senato delle Filippine ha varato una risoluzione per rafforzare le leggi a protezione del coccodrillo marino e del coccodrillo delle Filippine (Crocodylus mindorensis), specie questa considerata a grave rischio di estinzione dalla International Union for Conservation of Nature (IUCN).
    La gigantesca mole di Lolong però non scomparirà con lui: Paje ha dichiarato che il rettile verrà imbalsamato ed esposto.

    Foto scattata dopo la cattura, nel 2011:

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    di Christine Dell'Amore.
    fonte: nationalgeographic.it

    [size=12pt]…….la Tartaruga di Kemp[/size]

    E' la specie a maggior rischio di estinzione fra tutte le tartarughe marine e, con appena 1.000 esemplari femmine in grado di nidificare, secondo stime approssimative, la loro sopravvivenza è seriamente minacciata.

    La causa del rischio di estinzione è principalmente l'eccessivo sfruttamento delle loro uova nell'ultimo secolo. E nonostante i siti di nidificazione siano protetti e la maggior parte dei pescherecci usi tecniche per evitare la cattura delle tartarughe, le tartarughe di Kemp non sono state in grado di riprendersi.

    Per questa ragione il momento della nidificazione, detto "arribada" diventa particolarmente drammatico. Durante l'arribada, le femmine si impossessano delle spiagge e si trascinano sulla sabbia con le pinne fin quando non trovano un luogo adatto per deporre le uova. Ancora più struggente è il cammino dei neonati fino al mare.  Assediati dai predatori, i piccoli compiono questo viaggio di notte, rompendo il guscio utilizzando il "dente da uovo", un dente temporaneo creato per questo unico scopo.

    Diffuse principalmente al largo del Golfo del Messico, ma localizzate anche a nord della Nuova Scozia, le Tartarughe di Kemp sono le più piccole fra le tartarughe marine, raggiungendo una lunghezza massima di 65 centimetri e un peso di circa 45 chili. Il loro guscio superiore, o carapace, è di color grigio-verde e hanno un ventre giallo-biancastro.

    Prediligono acque poco profonde, nelle quali possono immergersi per raggiungere i fondali e nutrirsi di granchi, il loro cibo preferito, e altri crostacei. Si nutrono anche di meduse e, occasionalmente, di alghe e sargassi. Possono vivere fino a 50 anni. Le femmine sono sessualmente mature intorno ai 10-12 anni. Depongono le uova ogni tre anni, e possono deporre diverse nidiate di uova per stagione.

    Animali altamente migratori, possono viaggiare per migliaia di chilometri per raggiungere la spiaggia adatta per deporre le uova, solitamente la stessa spiaggia in cui sono nate.

    FONTE: nationalgeographic.it

    [size=13pt]Il Krill…. [/size]

    che non supera in media i 5 centimetri di lunghezza, assume dimensioni enormi se lo si considera all’interno della catena alimentare mondiale, della quale rappresenta un anello tra i più importanti. Questi piccoli crostacei a forma di gambero sono niente meno che il carburante con cui si mantiene in moto l’intero ecosistema marino del pianeta terra.

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    I krill si nutrono di fitoplancton e di microscopiche piante monocellulari che fluttuano poco sotto la superficie dell’oceano, dove trovano l’anidride carbonica e i raggi solari che le tengono in vita. I krill, a loro volta, costituiscono l’alimento principale nella dieta di centinaia di specie animali diverse, dai pesci e gli uccelli fino alle balene. Basti dire che senza i krill la maggior parte delle forme di vita dell’Antartico scomparirebbero.

    Studi recenti hanno segnalato un’allarmante riduzione dei banchi di krill antartici, che dagli anni Settanta ad oggi sarebbero diminuiti dell’80%. Gli scienziati attribuiscono in parte questo calo alla riduzione della calotta glaciale come conseguenza del surriscaldamento terrestre. Lo scioglimento dei ghiacci priva i krill di una risorsa alimentare fondamentale: le alghe dei ghiacci.

    Tra le 85 diverse specie di krill conosciute, quella antartica è in assoluto la più cospicua. La quantità di krill presenti nelle acque dell’Antartico è stimata tra i 125 milioni e i 6 bilioni di tonnellate. In alcuni periodi dell’anno, i krill, rosa e opachi, si raccolgono in enormi nugoli che raggiungono una concentrazione così alta da essere visibili dallo spazio. Il krill antartico può vivere fino a 10 anni, una longevità straordinaria per una creatura braccata senza sosta. I krill passano i loro giorni fuggendo dai predatori nei freddi abissi dell’Oceano Antartico, a una profondità di circa 100 metri. La notte risalgono verso superficie in cerca di fitoplancton.

    fonte: nationalgeographic.it

    [size=12pt]I Calamari volanti…..[/size]

    ….molluschi della famiglia Ommastrephidae sono effettivamente in grado spiccare il volo e planare per distanze relativamente lunghe.

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    Ricorrendo a un potente sistema di propulsione a getto, alcune specie di calamari infatti sono in grado di uscire dall'acqua e spiccare il volo; si tratta di un comportamento abbastanza comune negli oceani. Tuttavia, è stato osservato scientificamente molto di rado: la maggior parte degli studi si basano appunto su racconti di terza mano e scarsissima documentazione fotografica. Lo studio dell'università giapponese si basa su una sequenza fotografica nel Pacifico nordoccidentale, e mette in luce come, durante il volo, i calamari cambino volontariamente postura e atteggiamento a secondo della fase del volo e della distanza dall'acqua.

    Ma come fanno a passare dalla fase del nuoto a quella del volo?

    La ricerca descrive quattro fasi: lancio, spinta a getto, volo a planare e tuffo.

    Mentre nuotano, i calamari si riempiono d'acqua. Poi si lanciano in aria espellendo un forte getto d'acqua dal corpo. Una volta lanciato da questa spinta a getto, gli invertebrati allargano le "pinne" e i tentacoli a formare delle ali. I calamari hanno una membrana tra i tentacoli simile a quella dei piedi palamati delle anatre.  Ciò li aiuta a creare maggior attrito con l'aria e a consentire il volo planato.

    I calamari planano a una velocità di 11,2 metri al secondo. Per fare un confronto, il velocista giamaicano Usain Bolt, vincitore della medaglia d'oro alle ultime olimpiadi, raggiunge i 10,31 metri al secondo. Gli invertebrati restano in aria per circa 3 secondi coprendo circa 30 metri in ogni volo. 

    Mentre è in aria, il calamaro non si limita a planare passivamente, ma cambia posizione a secondo dalla distanza dall'acqua e della fase del volo. Dopo aver planato sull'acqua, l'animale ripiega pinne e tentacoli per minimizzare l'impatto al momento di rituffarsi nell'oceano.

    Gli studiosi hanno documentato gruppi di oltre venti animali che volavano assieme. Ma perché lo fanno? Gli studiosi giapponesi sono convinti che questo comportamento serva a sfuggire ai predatori: una tattica usata anche dai pesci volanti. 

    Ma se spiccare il volo consente ai calamari di sfuggire ai predatori marini, li espone a un altro genere di predazione: quella da parte degli uccelli marini. Come dire, dalla padella alla brace.

    FONTE: nationalgeographic.it

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